15 Ottobre 2023/ anno A
Is 25, 6-10; Sal 22; Fil 4, 12-14.19-20; Mt 22,1-14
L’immagine della festa di nozze che fa da sfondo alla parabola matteana di questa domenica è una chiara metafora del Regno dei cieli, che costituisce non solo il cuore della predicazione del Battista e di Gesù (cf. Mt 3,2; 4,17), ma anche di tutta la tradizione profetica e dell’attesa di ogni pio israelita.
Ciò aiuta anche a comprendere chi sia il vero protagonista del racconto: il re, al quale sono riferiti diversi verbi che esprimono la sua iniziativa sia nei confronti dei servi («Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze… Mandò di nuovo altri servi… Poi disse ai suoi servi») che degli invitati («Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze… Venite alle nozze… chiamateli alle nozze»).
La parabola, allora, parla dell’invito che Dio instancabilmente rivolge agli uomini perché entrino nel suo Regno: di qui, scaturisce la tensione, che anima tutta la narrazione, tra la grazia della chiamata e la libertà della risposta.
Come nella parabola dei contadini omicidi, anche in questo caso l’iniziativa di Dio sembra fallimentare: nonostante i ripetuti invii dei servi da parte del re, gli invitati si mostrano resistenti ad accogliere l’invito, qualcuno per un difetto di volontà («non volevano venire»), qualcuno per una sorta di indifferenza che si traduce in noncuranza («quelli non se ne curarono»), fino al rifiuto estremo di alcuni che sentono l’invito come vincolante e tentano di estirparlo alla radice con la violenza («presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero»).
In realtà, però, anche tra coloro che successivamente accolgono favorevolmente l’invito la piena corrispondenza alla chiamata è tutt’altro che scontata: tra coloro che entrano al banchetto, infatti, vi sono alcuni che non indossano l’abito nuziale, segno esteriore della partecipazione alla gioia del banchetto e, dunque, della disponibilità interiore a corrispondere pienamente all’invito gratuitamente ricevuto.
La tensione tra grazia e libertà culmina, così, in un giudizio che è per tutti, sia per coloro che hanno rifiutato esplicitamente l’invito, sia per coloro che, pur accettandolo, in realtà non ne hanno assunto tutte le conseguenze, restando immutati e incapaci di un vero e radicale cambiamento interiore.
Se, dunque, la parabola narra la drammatica vicenda di una “sostituzione” degli invitati (frutto non di un abbandono del popolo da parte di Dio, ma di un abbandono di Dio da parte del suo popolo), essa intende ricordare che l’elezione non è mai senza giudizio, chiunque sia il suo destinatario.
Se la parabola ha sullo sfondo il rifiuto di Gesù da parte delle autorità giudaiche – come anche il rifiuto da parte di Israele della prima predicazione cristiana –, essa intende mettere i cristiani in guardia dal ritenersi al sicuro rispetto al giudizio divino: l’accoglienza dell’invito e l’ingresso nella sala non costituiscono una garanzia!
È richiesta al credente una continua vigilanza, perché allo “stare dentro” corrisponda un modo adeguato di starci, che è quello di fare propri i sentimenti di colui alla cui chiamata si è risposto affermativamente: per questo, pur essendo molti i chiamati, pochi sono gli eletti, vale a dire coloro che vivono effettivamente secondo il dono di grazia ricevuto.
Questa consapevolezza viene consegnata dall’evangelo non al fine di suscitare nell’uomo l’angoscia di fronte al giudizio divino, ma per risvegliare in ciascuno l’urgenza di una risposta che – qualunque essa sia – è presa da Dio talmente sul serio da avere delle conseguenze nel giudizio.
È qui, nel peso accordato da Dio alla responsabilità dell’uomo, che si manifesta il carattere straordinario e misterioso della libertà umana.
P. Gianpiero Tavolaro