10 Settembre 2023/Anno A
Ez 33 1.7-9; Sal 94; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20
La gestione del peccato non è mai un fatto privato per un cristiano: la caduta, infatti, tocca e coinvolge l’intera comunità dei credenti, tanto che questa, in quanto corpo di Cristo, vive la caduta di ciascuno dei suoi membri come una ferita che indebolisce l’intero corpo ecclesiale.
La comunità è chiamata a riconoscere e a denunciare l’errore di chi la abita, fungendo da “specchio”, nel quale poter guardare la propria verità. Ciò richiede la personale e comune disponibilità a deporre l’immagine ideale di sé, concedendo al fratello un “diritto di parola” sulla propria vita: diritto rischioso, che richiede non solo un atto di fiducia da parte di chi è chiamato a ricevere quella parola, ma anche un atto di discernimento da parte di chi è chiamato a dire al proprio fratello non qualunque cosa, ma solo ciò che è necessario e che giova alla sua salvezza, al conseguimento della sua personale pienezza.
La correzione della quale Gesù parla nell’evangelo di Matteo può avere, d’altra parte, una motivazione soltanto: l’amore per il fratello. L’errante resta sempre per la comunità un fratello («Se il tuo fratello commette una colpa»), anche se il peccato, in quanto smarrimento della propria identità di figlio, implica da parte del peccatore un tradimento della propria identità di fratello.
Nessuna correzione che voglia dirsi evangelica, allora, è possibile al di fuori della fraternità: la correzione secondo l’evangelo è, in effetti, sempre una correzione fraterna, tra fratelli.
A volte, però, anche la più amorevole delle correzioni può destare resistenza e di ciò l’evangelo è consapevole, al punto da tracciare per la comunità di ogni luogo e di ogni tempo una prassi di correzione che prevede un coinvolgimento comunitario progressivo e proporzionale al grado di resistenza manifestato dal peccatore.
Dalla discrezione dell’incontro a due si passa alla insistenza di due o tre testimoni, ai quali spetta pronunciare una parola («sulla parola di due o tre testimoni») avvalorare l’errore e il peccato, ma, soprattutto, attestare quell’amore vero, umano e concreto, che vuole avvolgere l’errante.
Ultima tappa è quella nella quale maggiormente si esprime l’amore della Chiesa tutta, la quale, come “corpo di peccatori riconciliati”, chiede all’errante di riconoscersi egli pure peccatore e di tornare, quindi, in comunione con i suoi fratelli, anch’essi peccatori perdonati.
La dura conclusione riservata a chi non è disposto ad accogliere la correzione dei suoi fratelli («consideralo come un pagano e un pubblicano») è, in realtà, la constatazione di un dato di fatto: chi consapevolmente non accoglie l’amore si pone da sé fuori della comunità di Gesù.
Una Chiesa che sa riconoscere nella verità il proprio peccato e sa trovare nell’amore la via della sua salvezza ha, dunque, una potestà – quella di legare e di sciogliere – che non è anzitutto ed esclusivamente di natura giuridica: essa significa capacità di discernimento delle vie di morte (da legare) e delle vie di vita (da sciogliere).
Una Chiesa che sa essere comunità di fratelli capaci di riconciliazione può rivolgersi al Padre, confidando nell’efficacia di una preghiera, che è già frutto del grande “miracolo” dell’unità («Se due o tre si accordano sopra la terra»).
La Chiesa, infatti, prega accordando le voci, i cuori, i desideri e il cuore di questa sinfonia è uno solo: Cristo, presente dove sono due o tre riuniti nel suo nome.
E così, mentre la presenza di Cristo è l’unica garanzia di perdono, il perdono che i membri di una comunità sanno scambiarsi è espressione della effettiva presenza di Cristo tra loro.
P. Gianpiero Tavolaro