3 Settembre 2023/ Anno A
Ger 20,7-9; Sal 62; Rm 12,1-2; Mt 16,21-27
L’accesso all’identità di Gesù non è mai un fatto immediato per il discepolo: esso richiede del tempo e suppone una storia dentro la quale il progressivo svelarsi del Maestro si incontra – provocandola ad andare sempre più al di là di sé e delle sue acquisizioni – con la disponibilità ad accogliere il vero volto del Signore.
Al discepolo, infatti, non può bastare sapere “chi” sia Gesù: stando a Mt 16,16, Pietro ha riconosciuto – per una rivelazione del Padre che lo raggiunge nel suo “stare con Gesù” – che Gesù è il Messia («Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»), ma quando Gesù entra in quel primo movimento di ascolto e di apertura, fidandosi della disponibilità dei suoi ad aprirsi a una rivelazione dall’alto e consentendo loro di intravvedere qualcosa del suo modo di essere Messia («Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli…»), lo stesso Pietro mostra di non riuscire a cogliere realmente “che” Messia è Gesù!
Il motivo di questa incapacità sembra risiedere nelle parole che Gesù consegna loro e che, come una spada a doppio taglio, svelano qualcosa di Gesù, ma manifestano al tempo stesso anche qualcosa del cuore dei suoi discepoli.
Gesù chiede ai suoi di accogliere la disponibilità all’offerta radicale ed estrema della propria vita con la quale egli stesso ha dovuto fare i conti («Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»). La croce non è stata per Gesù il destino al quale piegarsi per corrispondere a un arcano disegno del Padre o a un inarrestabile complotto degli uomini; la croce non ha rappresentato per lui neppure un “semplice” fatto – l’ultimo – della sua vita terrena, da assumere nella consapevolezza che esso sarebbe stato solo un “passaggio”.
La croce è stata per Gesù anzitutto uno stile di amore e di relazione, preparato e vissuto lungo il corso di tutta la sua vicenda terrena: Gesù non ha amato né desiderato il sacrificio, ma ha saputo riconoscere nel dono di sé una via per amare l’altro, donando non qualcosa di sé, ma se stesso.
Questo è quanto egli rivela di sé ai discepoli e questo è quanto suscita in essi una reazione che ha il sapore della chiusura, più che quello della non comprensione: è forse questo ciò che le parole di Pietro vogliono intendere («Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai»). Il problema, in fin dei conti, non è solo sapere, ma è prima di tutto accettare e percorrere la via tracciata dal Maestro.
I discepoli stessi – prima ancora degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi – hanno resistito energicamente allo stile di Gesù, consapevoli e timorosi delle conseguenze che quello stile avrebbe comportato: il prendere la propria croce, l’assumersi personalmente uno stile di dono senza riserve e senza sconti.
La posizione chiesta al discepolo (lo stare “dietro a Gesù”) è allora la posizione di chi è disposto a percorrere la sua stessa via, nella quale e attraverso la quale realizzare la paradossale coincidenza del perdere la vita e del trovarla.
Il perdere cui Gesù si riferisce significa esattamente la disponibilità a non intendere e vivere la propria esistenza nell’attaccamento a sé, alle proprie cose, alle proprie sicurezze: quello che Gesù propone non è, dunque, il disprezzo della propria vita, ma l’allargamento dei suoi orizzonti, perché in essa trovi piena accoglienza il dono di sé fino all’estremo.
L’offerta della vita – significata dal prendere la croce e dal perdere la vita – non è contro la vita, dunque: essa è, invece, la espressione estrema di una vita che si concepisce come non altro dall’amore. Vivere è amare e amare è vivere, anche quando l’amore chiede di attraversare la valle oscura della morte.
P. Gianpiero Tavolaro