29 Ottobre 2023/Anno A
Es 22, 20-26; Sal 17; 1Ts 1,5c-10; Mt 22,34-40
L’amore non rappresenta per la Scrittura una tra le tante chiavi di lettura che la rivelazione offre all’uomo per decodificare se stesso e Dio: l’amore è senza dubbio il cuore stesso di tutto il messaggio biblico, da cui «dipendono tutta la Legge e i Profeti».
Se, infatti, «Dio è amore» (1Gv 4,8), allora anche l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27), porta in sé i segni di quell’amore, vivendo il quale realizza in pienezza ciò che è per sua natura. Facendo dell’amore «il grande e primo comandamento» (come suggerisce il vangelo di questa domenica, al v. 38), Gesù non intende spogliare l’amore della sua componente pulsionale e passionale: vuole, al contrario, affermare l’impossibilità per l’uomo di essere davvero se stesso al di fuori di un orizzonte nel quale lascarsi amare e amare; al tempo stesso, poi, egli intende portare il suo interlocutore – in questo caso un dottore della Legge (e, quindi, chiunque cerchi nella Legge una via di verità e di unificazione di sé) – a comprendere che neppure la Legge si colloca al di fuori di questo orizzonte, al quale, invece, risulta assolutamente indispensabile, perché l’amore non venga banalmente e superficialmente identificato come possibilità di un accesso incondizionato all’altro e di una sua presa senza limiti.
l limite imposto dalla Legge, dunque, “serve” all’amore perché questo sappia effettivamente riconoscere che esiste un altro e sappia relazionarsi con lui; al tempo stesso, però, l’amore “serve” alla Legge perché è in esso che si esprime il più profondo dei desideri dell’uomo: quello di essere (ri-)conosciuto e di essere amato.
Il comandamento grande ha una duplice declinazione in relazione ai destinatari dell’amore: esso, infatti, è al tempo stesso amore di Dio e amore del prossimo. Su questo gli evangeli sono concordi, sia pure secondo sfumature differenti che riflettono una diversa meditazione sul tema da parte delle comunità all’interno delle quali sono stati redatti: riprendendo Marco, anche Matteo parla di due comandamenti, ma specifica che di essi il secondo è simile al primo; per Luca si tratta, invece, di un unico comandamento; la tradizione giovannea, che pure insiste sul mandatum novum, arriva ad affermare che «chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,21).
Ciò che lega i due amori, dunque, è non solo la radice (si ama perché Qualcuno ci ha amati per primo: cf. 1Gv 4,19), ma anche il fatto che l’amore per il prossimo è rivelativo dell’amore che si dice di nutrire per Dio.
Il criterio ultimo che dice la verità di questo amore risiede nella capacità di amare come se stessi: da un lato, quindi, solo chi è in grado di amare l’altro come se stesso riconosce veramente l’altro come un altro da sé, un altro “io” da amare e rispettare; dall’altro, solo amando l’altro come se stessi, si riconosce la propria esistenza come relazionale e si assume la verità per la quale solo vivendo in relazione l’uomo può giungere al compimento della propria natura umana e può dire di vivere davvero.
Nessuna contrapposizione, allora, tra amore di Dio e amore del prossimo, ma neppure tra amore del prossimo e amore di sé: l’amore di cui parla il vangelo è esperienza di profonda unificazione, attraverso cui viene sanata la frammentazione introdotta tra l’io, Dio e l’altro dalla caduta dell’uomo e della donna nel giardino dell’in-principio.
A dare valore all’amore, dunque, non è il suo oggetto: non importa verso chi tenda l’amore perché esso sia vero. A inverare l’amore è la sua capacità di non escludere nessuno dal proprio raggio di azione, esattamente come fa il Dio rivelatoci in Gesù, un Dio che è disposto a cercare fin negli inferi il suo interlocutore per consentirgli, attraverso l’amore, di vivere ancora.
P. Gianpiero Tavolaro