19 Novembre 2023/ Anno a
Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1Ts 5,1-6; Mt 25, 14-30
Al cuore dell’evangelo vi è senza dubbio l’annuncio del Regno dei cieli: «Il regno dei cieli è vicino» (Mt 3,2; 4,17).
Inaugurata in Gesù – nell’assunzione della nostra carne umana da parte del Figlio di Dio –, la venuta del Regno chiede ai discepoli del Signore un’attesa tutt’altro che passiva: essa esige, infatti, una conversione, che implica il volgere a Lui tutte le proprie risorse esistenziali.
Orientare la propria vita al Regno veniente, riconoscere che è lì il fine, il compimento della vicenda umana personale e universale, non significa fuggire dalla storia, nella vaga speranza in un mondo migliore che prima o poi arriverà: attendere il Regno significa prepararne la venuta, nella consapevolezza che quel Regno, per quanto “altro” da questo mondo, non è un’alternativa a esso, ma ne è il compimento in Dio.
Chi attende davvero il Regno, dunque, è uno che ne predispone ogni giorno l’accoglienza nel proprio cuore, ma anche attraverso scelte e azioni che sono già secondo la logica del Regno.
La vigilanza con cui i discepoli del Signore sono chiamati a vivere la propria attesa richiede pertanto la prudenza – mediante la quale perseguire concretamente il proprio fine –, ma anche la fedeltà: questa, per il vangelo, si configura come la capacità di assumere responsabilmente il dono di grazia ricevuto, perché quel dono possa, nel tempo, portare frutto.
È in questa prospettiva che può essere letta la parabola dei talenti, che per l’evangelo di Matteo, chiude il trittico delle parabole sulla vigilanza.
Vero cuore della parabola, in realtà, non sono i talenti, ma la relazione – di cui i talenti sono il “mezzo” – tra il padrone e i servi e all’origine della quale è, in effetti, una consegna, un dono fatto «secondo la capacità di ciascuno».
Questa annotazione sottrae i talenti all’interpretazione moralistica – che vede in essi delle capacità o delle risorse naturali –, facendone invece il segno della responsabilità di fede che a ciascuno viene affidata in considerazione delle proprie personali capacità di sequela.
Il dono contiene in sé uno sguardo sull’uomo: è il dono che si misura sull’uomo e non il contrario. In tal modo, ciascuno è chiamato a vivere un “fattore di rischio” che, essendo proporzionato alle proprie forze, non è insostenibile.
È da questo rischio – vale a dire dalla disponibilità a investire sul dono ricevuto, credendolo efficace, ma anche sulla propria capacità, sulla quale il dono è stato misurato – che dipende la possibilità di portare frutto.
Questo, tuttavia, è il punto di criticità sul quale la parabola invita a riflettere: il dramma del sottrarsi al rischio di investimento.
L’irresponsabilità del terzo servo sta nel fatto che egli ritiene giusto restituire integro il dono ricevuto («ecco ciò che è tuo»): in questo, tuttavia, si manifesta una mancanza di fiducia che riguarda tanto l’efficacia del dono quanto la personale capacità sulla quale il padrone ha misurato il dono.
Radice di questa infedeltà è la paura: il servo dichiara di aver paura del padrone, che, ai suoi occhi, appare «duro».
Il servo attribuisce, così, al padrone quell’irrigidimento del cuore che, in realtà, è esattamente la condizione di chi non è realmente disposto ad accogliere la consegna ricevuta in tutta la sua potenza (cf. Mt 19,8); d’altro canto, la sua paura dice anche lontananza dall’orizzonte di amore, nel quale avrebbe dovuto vivere la relazione con il padrone (cf. 1Gv 4,18).
Si comprende, così, il duro monito con cui si chiude la parabola: «a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha».
Chi vive fuori dell’amore, vive come se non avesse nulla e, pertanto, resta nella schiavitù della paura, che lo condanna alla sterilità: la fecondità, infatti, è propria dell’amore e l’amore è non solo dono, ma anche accoglienza responsabile. Solo chi accoglie l’amore e rischia è “divino”, proprio come colui che dona.
P. Gianpiero Tavolaro