21 Novembre 2021/ Anno B
Dn 7,13-14; Sal 92; Ap 1,5-8; Gv 18,33-37
L’ultima domenica dell’anno liturgico, la regalità di Cristo…è proprio così: alla fine c’è la sua regalità; il culmine di ogni vita cristiana vera è la proclamazione ed il riconoscimento di questa regalità, anzi la vita cristiana diventa autentica solo quando si inizia ad intravedere il volto singolarmente regale di Gesù!
Si cammina, si combatte per credere ed affidarsi, si lotta per essere santi, ci si affatica per le strade della storia… ma per chi? Per chi si cammina, per chi si combatte, per chi si lotta, per chi ci si affatica?
Il rischio è farlo per un ideale (che può essere anche nobilissimo!) o per qualcosa… è un rischio perché gli ideali e le cose, se sganciati da un volto, possono diventare disumanizzanti. Certo, anche un volto può divenire un idolo che incatena (quanti “santi” affetti sono a rischio di schiavitù!); l’unico “qualcuno” che può divenire “scopo”, e contemporaneamente liberare, è Gesù! E questo non perché anche Lui non possa essere ideologizzato o essere tramutato in idolo (noi uomini abbiamo saputo fare anche questo e l’abbiamo saputo fare nelle Chiese cristiane!), ma perché se lo incontriamo davvero (il punto è lì!) e non nelle nostre proiezioni, il suo sguardo ci consegna a noi stessi e ad una verità liberante. Se lo incontriamo davvero e lo riconosciamo nostro re, la sua regalità ci consegna un’umanità libera da sé, capace di amare e la cui verità è solo l’amore.
L’Evangelo di questa solennità ci mostra un confronto: Pilato e Gesù. Due regalità che si guardano negli occhi. In tutto il dialogo (di cui oggi leggiamo solo un tratto) sembra che Gesù sia l’interrogato e Pilato il giudice che fa domande. In realtà ci accorgiamo subito che le parti sono paradossalmente invertite.
Pilato ci appare subito prigioniero delle sue paure e dei giochetti politici; paura di Roma e del suo immenso potere che non può e non deve né essere messo in dubbio, né tantomeno diminuito, costi quel che costi, fosse anche il sangue di un innocente; paura di perdere prestigio e potere in mezzo a quel popolo in cui, rappresentando Roma, ne gustava personalmente l’inebriante potenza; è prigioniero dei giochetti sottili, sul filo delle parole, con il Sinedrio e poi con la folla…
Nel dialogo con Gesù non c’è nessun giochetto perché Gesù gli consegna subito una parola franca, limpida, libera da timori. Gesù non ha paura di parlare di questo Regno che non è di quaggiù ma che è un vero regno tanto più grande di quello di Roma! Lo abbiamo sentito anche nel celebre passo dal Libro di Daniele da cui oggi è tratta la prima lettura: «Il suo regno è tale che non sarà mai distrutto». Parola questa che ci richiama irresistibilmente ciò che dice Gabriele nell’Evangelo di Luca «Il suo regno non avrà fine» (Lc 1,33); l’impero di Roma, invece, crollerà inesorabilmente. Il suo è un vero regno in cui i “sudditi” non sono quelli che danno al re ma sono coloro che ricevono dal re la testimonianza della verità.
Come ricevono questa testimonianza?
Contemplandolo sulla croce ad amare fino all’estremo (cfr Gv 13,1), contemplandolo trafitto, come scrive Giovanni nel passo dell’Apocalisse che oggi ascoltiamo… quando l’umanità saprà volgere lo sguardo al trafitto per amore, allora comprenderà la verità dell’uomo e della storia e così si batterà il petto in segno di penitenza e, riconoscerà in quel trafitto il Pantocrátor, cioè, “Colui che tutto regge”, “Colui che è il senso della storia”; non si tratta di “onnipotenza” ma di rivelazione di tutto il senso!
I due regni che si trovano faccia a faccia in quel 14 di Nisan nel Pretorio di Pilato sono radicalmente opposti; quello di Gesù non usa le armi del mondo («Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei»), ma dichiara la sua potenza nella consegna per amore.
Quando Pietro nel Getsemani aveva usato la spada, un’arma di questo mondo, Gesù gli aveva ingiunto di rimetterla nel fodero perché Lui deve bere un calice che il mondo non può neanche immaginare, il calice dell’obbedienza all’amore, il calice di una sottomissione che racconta una sovrana libertà (cf. Gv 18,10-11).
La regalità di Gesù è tale perché è libera e liberante; Gesù è libero da sé tanto da offrirsi nell’amore; è libero dal mondo perché non lo teme, ma ne attraversa la violenza per vincerla; la regalità di Gesù è liberante perché chi lo riconosce re ed inizia a dimorare in Lui, a farne il suo sovrano, si incammina con Lui su quella strada che Lui apre con la sua passione. Una strada che attraversa la storia e può trasformarla, una strada, però che non si ferma alla storia ma la travalica!
Chi riconosce la regalità di Gesù inizia a cercarlo “perdutamente”, inizia a cercarlo con una passione tale che renderà il proprio sguardo lungimirante e capace di penetrare l’oltre della storia; se il suo Regno non è di questo mondo, se il suo Regno non è di quaggiù sarà impellente cercarlo nell’ “oltre”, sarà necessario entrare in quella tensione di speranza che è capace di trainare la storia verso la meta e, mentre la traina, la trasforma.
La regalità di Cristo ci attrae al futuro di Dio mentre ci chiede di spenderci qui e oggi nell’amore!
P. Fabrizio Cristarella Orestano