2 Luglio 2023/ Anno A
2 Re 4,8-11.14-16a; Sal 88; Rm 6,3-4,8-11; Mt 10,37-42.
Se è difficile accogliere l’Evangelo per ciò che esso realmente è e significa – vale a dire l’annuncio della buona notizia di una prossimità di Dio all’uomo, che libera l’uomo dalla triplice schiavitù della Legge, del peccato e della morte –, ciò è dovuto alla fatica che l’uomo (anche quando si dice “discepolo” del Signore) compie nell’accogliere dell’annuncio evangelico la potenza “rivoluzionaria” e disgregatrice dei falsi e apparenti ordini che egli di continuo si dà per tentare (illudendosi) di vivere in modo tranquillo e comodo.
È solo quando si sia disposti a cogliere il senso profondo di questa “decostruzione” che l’Evangelo esige («Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada», Mt 10,34), che l’uomo può vivere davvero “altrimenti”, secondo l’uomo nuovo inaugurato in lui dall’accoglienza della salvezza donata in Gesù Cristo.
Per quanto dure appaiano le esigenze di fronte alle quali il credente è messo dalle parole di Gesù, esse non mirano ad altro che a far emergere, in ognuno, quella umanità nuova che Cristo ha rivelato con la sua vita e con la sua parola: ciò che l’Evangelo propone – e per questo in esso è possibile porre la propria fede – non è, dunque, la mortificazione dell’umano, quanto piuttosto la possibilità di un umano più libero, perché meno imprigionato da catene spesso rivestite di una patina dorata, ma non per questo meno soffocanti.
Tra queste vi sono quegli stessi vincoli familiari (di cui sono icona il legame con il padre e con la madre, ma anche quello con un figlio o con una figlia), ai quali Gesù non chiede di rinunciare, ma che egli domanda di “ordinare” sulla base della propria personale relazione con lui. L’Evangelo non chiede, in altri termini, di smarrire il livello della “natura” (di cui le relazioni parentali sono espressione), ma di non sganciarlo dal livello della “grazia”, di cui Cristo è la più alta manifestazione.
Questo avviene, concretamente, quando si sia disposti a “perdere” qualcosa di sé, ossia a lasciare andare quella dimensione di bisogno e di sicurezza che perfino un vincolo affettivo primario (come quello verso un genitore o verso un figlio) porta con sé.
Gesù sembra qui voler dire che solo a partire dalla relazione con lui – che è relazione segnata da quell’amore preveniente e gratuito che il Padre in lui ha donato all’uomo – ogni relazione umana può essere improntata alla logica del dono gratuito di sé, che è la logica stessa di Dio.
A ben pensarci, neppure la relazione tra un genitore e un figlio può dirsi del tutto “gratuita”: essa porta sempre con sé attese, proiezioni, eredità da trasmettere e da ricevere, bisogni… ma, a partire dalla relazione con il Cristo, anche relazioni di questo tipo possono essere ricomprese e ricollocate nell’orizzonte e nella logica del Regno: tuttavia, questo, inevitabilmente, esige una “morte”, che è quella del “possesso” da cui alcune relazioni (non sono con le cose, ma anche con le persone) sono connotate.
È questa la “crocifissione” che Gesù chiede ai suoi: non la sopportazione delle sofferenze piccole e grandi della vita, ma la morte di quella philautía che è in qualche modo insita anche nelle relazioni umane primarie. È in questo “evangelizzare” i rapporti naturali che l’uomo può vivere una dimensione di apertura universale, che non è dimenticanza delle proprie radici e neppure una fuga dalle proprie responsabilità relazionali, quanto piuttosto possibilità di vivere ogni relazione “in Cristo”, in uno spazio di grazia/gratuità nel quale tanto il “parente” quanto il “lontano” possono (e devono) divenire “prossimi” da amare dello stesso amore di cui li ama il Cristo.
Accogliere la propria figliolanza in Cristo, riconoscersi cioè come figli di un medesimo Padre, dunque, non è altro che accogliere la proposta dell’Evangelo, che, per quanto radicale e rivoluzionaria, è anche squisitamente umana, di un umano da costruire e ordinare con Cristo, per Cristo e in Cristo.
P. Gianpiero Tavolaro