17 Dicembre 2023/ Anno B
Is 61,1-2.10-11; Cant. Lc 1,46-50.53-54; 1Ts 5,16-24; Gv 1 6-8.19-28
Per il cristiano, fede (pistis) e testimonianza (martyría) sono inseparabili: non vi è, infatti, sequela di Cristo che non passi per la testimonianza che a lui va resa e non vi è vita di fede che non sia essa stessa testimonianza.
La testimonianza su Cristo è condizione essenziale perché altri, “quelli di fuori”, possano accedere alla conoscenza del mistero di Dio, senza la quale non è possibile compiere alcun passo verso la possibilità della fede: Cristo stesso è il «testimone fedele» (Ap 1,5), che con la sua parola e la sua vita ha reso testimonianza al Padre, rivelandone il vero volto all’uomo (cf. Gv 1,18) e coloro che a lui aderiscono, a loro volta, non lo seguono solo per se stessi, ma diventano testimoni, annunciatori di ciò che hanno sperimentato: «la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza… quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,2-3).
La testimonianza dice, allora, una relazione di conoscenza diretta, personale di ciò di cui si è testimoni, ma indica anche la valenza pubblica e non privata di tale conoscenza: il testimone, in altri termini, parla di ciò che conosce e lo fa perché altri possano venire a conoscenza di quanto altrimenti ignorerebbero.
La testimonianza della fede, però, non si limita a creare condivisione di conoscenza, ma mira a crea comunione di vita in forza della comunione che lega il testimone stesso al mistero che annuncia: in tal senso, la parola “martire” non dovrebbe evocare primariamente ed esclusivamente l’idea del perdere la vita per Cristo, ma dovrebbe rimandare anche all’esito ecclesiale di questa perdita, vale a dire il rafforzamento della comunione e la condivisione di una gioia che viene dall’essere uno in Lui: «La nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,3-4).
È dentro questo orizzonte che si chiarisce il senso della testimonianza resa da Giovanni il Battista a Gesù: Giovanni è tutto in funzione di Gesù e a lui conduce, perché è su di lui che egli tiene fisso il proprio sguardo (cf. Gv 1,35).
Questa capacità di orientare a Cristo, tuttavia, non è in Giovanni il frutto soltanto di una parola proclamata con forza: essa dipende dalla verità con la quale egli sa guardare a se stesso dentro il suo rapporto con Cristo.
Giovanni «non si gonfia» (cf. 1Cor 13,4), non pretende di passare per quello che non è («Io non sono il Cristo… a lui non sono degno di slegare il laccio del sandalo»), ma si definisce a partire dalla sua relazione con Gesù: «Io voce di uno che grida nel deserto».
La sua vita è tutta “prestata” a Lui e alla causa del Regno ed è questo ad aver permesso a Giovanni di rendere testimonianza alla luce (Gv 1,7): Giovanni non ha compreso tutto e chiaramente sin dal primo momento, riconoscendosi ben consapevole di aver dovuto compiere un passaggio dalla condizione di ignoranza alla conoscenza: «Io non lo conoscevo».
Questo passaggio esprime la fatica della fede che mai vive una condizione di chiarezza assoluta, ma procede tra luci e ombre, confidando non nelle proprie forze, ma in quelle di colui cui aderisce.
È stato così anche per Giovanni, che non è “inciampato” in Gesù, nello scandalo di una predicazione e di una vita per molti aspetti diverse dalle sue: se Giovanni è arrivato a vedere e a conoscere, è perché non ha temuto di lasciarsi “capovolgere” dalla parola di quello stesso che lo aveva inviato a battezzare.
Il testimone è uno che, proprio come Giovanni, segue instancabilmente quella medesima parola da cui è stato raggiunto, che annuncia e che non teme di “fare”, assumendone tutte le conseguenze: è questa “fede intelligente” che guida e orienta i suoi passi a renderlo credibile e a rendere credibile il contenuto del suo annuncio.
Ma forse questa è una fede dalla quale la comunità cristiana è ancora troppo lontana.
P. Gianpiero Tavolaro