16 Aprile 2023/Anno A
At 2, 42-47; Sal 117; 1Pt 1, 3-9; Gv 20, 19-31
La seconda domenica di Pasqua dice alla Chiesa che quanto vissuto nei santi giorni del Triduo, che quanto vissuto e meditato nella settimana in albis è la vita di ogni giorno del discepolo di Gesù. I giorni della settimana dell’ottava di Pasqua sono segno di una Pasqua che, sorta all’alba di quel 9 di aprile dell’anno 30, non tramonta più; sulla storia, insomma, brilla sempre il sole di Pasqua e dunque i giorni bui sono quei giorni in cui i discepoli tradiscono quella luce, la dimenticano, se la vendono, si rintanano nelle loro caverne di peccato, di disperazione, di mondanità; quel sole brilla sempre ed ha bisogno di chi qualcuno che lo indichi, che lo proclami esistente al di là delle nubi tenebrose che imperversano nel nostro cielo; solo se qualcuno annunzierà e mostrerà quella luce pasquale essa correrà per il mondo e trasfigurerà la storia in storia d’amore; il tempo dell’uomo è il tempo in cui i discepoli hanno il compito di proclamare che, oltre le nubi anche dense del peccato del mondo, ormai c’è un sole alla cui luce si può vivere, c’è una novità che può riempire di sé la vecchiaia mortifera del mondo.
La pagina evangelica di questa domenica ci porta sui “lidi” particolarissimi del IV Evangelo e ci conduce a quel luogo chiuso in cui i discepoli ancora non credono che fuori il sole splende sempre; Gesù è risorto, ma i suoi sono ancora “morti”, sono ancora sepolti nelle loro paure, sono sepolti nell’incredulità non solo all’annunzio che già Maria di Magdala aveva loro dato (cf. Gv 20,18), ma anche alla parola stessa di Gesù che aveva detto: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto» (Gv 12,24). Non credono che dalla morte vissuta per amore e per un amore «fino all’estremo» (Gv 13,1), possa sorgere vita e speranza; sono fuggiti; anzi, per il IV Evangelo è Gesù che li ha salvati chiedendo a quelli che erano andati ad arrestarlo di lasciar andare i suoi; nel giardino del tradimento li aveva amati e aveva dato se stesso per loro, aveva data la vita per i suoi amici (cf. Gv 15,13): «Se cercate me, lasciate andar via costoro» (cf. Gv 18,8).
Ora i discepoli sono rintanati in una paura buia e sorda e Gesù va a cercarli proprio lì.
Risuona qui una parola che va posta al centro di questa domenica: «Pace!». Per ben tre volte il Risorto la ripete. Non è solo il solito saluto ebraico, è un annunzio, è un evangelo! E’ pace perché su questo mondo di guerre, di odi, di laceranti divisioni, Uno, Gesù di Nazareth, ha amato e ha contraddetto l’odio, Uno ha scelto di dare la vita, Uno ha perdonato senza nessun limite, Uno «che era nella condizione di Dio» (cf. Fil 2,6) ha voluto raggiungere gli uomini, suoi fratelli, fin nel loro inferno, Uno «tutto ha compiuto» amando fino all’estremo, Uno che il Padre ha risuscitato dichiarando in tal modo che l’amore vince la morte, che quell’amore ha vinto la morte, che quel sangue ha spento le fiamme velenose dell’odio inestinguibile che brucia l’umanità; ora chi vorrà, potrà permettere a Gesù di spegnere quelle fiamme velenose che gli bruciano il cuore.
Ora è iniziato il tempo del vero, definitivo Shalom. È la pace che è dono che viene da Dio, la pace costata il sangue di Gesù, è la pace che è dono ai discepoli e che dai discepoli deve passare al cuore del mondo. Se cogliamo questa parola ne riceviamo un brivido, un fremito … un fremito che deve passare nelle vene della storia.
Com’è questa pace che il Risorto annunzia? Non è certo quella del mondo che è solo una tregua tra le nostre guerre e tra le nostre morti; i discepoli, liberati da quella pace che Gesù annunzia nel Cenacolo, dovranno portarla al mondo; quella pace è frutto di una vittoria e di una presenza. È frutto di una storia paradossale che conserva le ferite di quel venerdì di morte ma anche la luce del «giorno uno della settimana» (Gv 20,1).
La via della pace e della luce sono proprio quelle ferite che il Risorto mostra entrando in quella tomba di viventi! Chi è che si è fatto presente in quella paura raggelante e in quelle porte chiuse? È quel Gesù crocefisso e morto che il Padre ha risuscitato per il suo amore, quel Gesù che vuole contagiare risurrezione e vita a tutto il cosmo.
Si fa presente proprio mentre si fa sera e quando Lui entra in quelle loro porte chiuse è come se la sera cessasse, si fa di nuovo giorno e giorno per sempre. Entra in quelle porte chiuse e mostra le sue ferite aperte e da quelle ferite, ancora paradossalmente, nasce la gioia per i suoi; quelle ferite, incredibilmente, trasformano il loro lutto in gioia (cf. Sal 30,12); l’aveva detto nei discorsi d’addio: «Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà» (cf. Gv 16,22); quelle ferite non suscitano in loro una memoria vergognosa del loro abbandono e della loro paura, ma annunziano loro quell’amore fino all’estremo con cui sono stati amati. Il Risorto mostrando le ferite narra l’amore.
Un amore che è stato vittoria sul peccato e sulla morte che è affidato alla loro missione futura, una consegna questa del Risorto che darà una direzione assoluta alla loro vita; affidando loro questo evangelo il Risorto rivela chi è Lui e chi siano loro da quel momento in poi: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi»; Lui dunque è l’Inviato dal Padre, loro, i discepoli, gli inviati per portare la pace; la pace è la remissione dei peccati, liberazione dal potere del male.
Come annunzieranno la remissione dei peccati? Essendo una comunità di peccatori perdonati, dovranno vivere il perdono come habitus di ogni giorno, di ogni relazione. Se tra loro si rimetteranno i peccati perdonandosi, il mondo conoscerà la remissione dei peccati, il mondo saprà che è possibile perdonarsi perché il Figlio Crocefisso ha compiuto in sé ogni misericordia di Dio. Un annunzio questo che non può avvenire solo con le parole ma ha bisogno di essere visibilizzato in una comunità di fratelli abitata dal perdono reciproco.
Se il primo passaggio della pace è la consegna che di essa il Risorto fa ai discepoli, segue subito un altro passaggio: la pace, attraverso i discepoli, deve correre per le generazioni future, nel tempo della Chiesa.
Ecco che subito i discepoli fanno iniziare questa corsa; annunziano subito a Tommaso, che era assente, la loro straordinaria esperienza: «Abbiamo visto il Signore!». Parole queste che dovrebbero suscitare gioia e adesione ed invece generano una sfida: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nelle ferite dei chiodi e non metto la mia mano nel fianco di lui io non credo!».
Gesù viene ed accetta la sfida di Tommaso: questi non tocca più nulla, ma diventa occasione per l’ultima beatitudine dell’Evangelo, quella che ci riguarda, quella che riguarda i futuri credenti: «Beati quelli che non avendo visto crederanno».
È la fede che conta, è il fidarsi; si deve vedere, ma con gli occhi della fede.
Questa fede occorre per entrare nella Pasqua di Gesù.
Se ci pensiamo bene anche quelli che hanno visto (come pure Tommaso) non hanno visto il Risorto solo con gli occhi del corpo … quelli del corpo vedono il giardiniere (cf. Gv 20,15), un viandante (cf. Lc 24,16) o addirittura un fantasma (cf. Lc 24,37) … hanno incontrato il Signore solo quando hanno visto con gli occhi della fede, hanno dovuto anch’essi fare quel salto della fede e riconoscere, come Tommaso, di essere stati cercati dall’amore. Ricordiamo, infatti, che è sempre il Risorto che prende l’iniziativa degli incontri con i discepoli, è sempre Lui che si accosta e li va a cercare nei loro lutti, nei loro pianti, nelle loro paure, nella loro incredulità.
La cosa straordinaria è che a questi vili, paurosi ed increduli Lui affida l’Evangelo della pace, a loro consegna la corsa della Parola che suscita la fede; la parola della fede, della pace, la parola della risurrezione ha le loro gambe e la loro voce per raggiungere tutti gli uomini.
Ha le nostre gambe e la nostra voce, ha le nostre vite per dire al mondo che l’alba di Pasqua ha portato nella storia un giorno che più non tramonta. Un giorno di luce nel quale si può vivere da uomini nuovi.
L’ultima beatitudine dell’Evangelo è monito a quel cristianesimo miracolistico e dello “straordinario” che nulla ha a che fare con quel Crocefisso Risorto che chiede adesione vera, rischiosa e coraggiosa senza vedere.
L’incontro con il Risorto è un evento verissimo nella vita di ogni credente, senza quell’incontro non c’è Chiesa, non c’è fraternità, non c’è discepolato di Cristo … un incontro verissimo ma che avviene in un’assoluta inverificabilità ed invisibilità secondo il mondo.
P. Fabrizio Cristarella Orestano