14 Gennaio 2024/ anno B
1Sam 3,3b-10.19; Sal 39; 1Cor 6,13c-15a.17-20; Gv 1,35-42
Che cosa è all’origine della sequela di Cristo da parte dei discepoli?
Come è possibile che alcuni uomini, certamente non diversi dagli altri perché migliori di essi, scelgano di diventare discepoli del Signore?
Gli Evangeli ci offrono al riguardo risposte apparentemente diverse, ma che, in realtà, sono tra loro complementari: se, infatti, per i Sinottici, l’accento va posto sulla chiamata – per cui è Gesù che, di sua iniziativa, mentre cammina, vede e chiama alcuni a seguirlo (cf. Mt 4,18-22; Mc 1,16-20; Lc 5,1-11) –, per il quarto evangelo l’invito di Gesù «Venite e vedrete» (Gv 1,39) ha il carattere di una proposta che viene rivolta a chi è già mosso da una personale ricerca («osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”», 1,38).
La ricerca sembra, così, costituire, non meno che la capacità di ascolto e la prontezza nel lasciare tutto e seguirlo, una condizione indispensabile perché la parola mediante la quale il Signore chiama possa fare breccia nei cuori, al punto da spingere alcuni a rischiare per Lui, scegliendo di percorrere e facendo propri i Suoi sentieri.
Non sono in questione, evidentemente, l’assoluto primato di Dio e l’indiscussa originarietà del Suo disegno d’amore: la ricerca, come la chiamata e ciò che a essa consegue, sono interamente nel segno della grazia di Dio, la cui azione misteriosa nei cuori degli uomini precede e prepara l’incontro con Lui; si tratta, però, di riconoscere che spesso (e sempre più di frequente), dal lato dell’uomo, Dio resta, almeno fino a un certo momento del proprio percorso, la meta, il punto di arrivo, più che il punto di partenza e solo dopo che Lo si è incontrato davvero si è in grado di riconoscere il proprio personale movimento come “secondo” rispetto al Suo.
Ciò che conta, in ogni caso, è cogliere che nessun movimento del Signore verso l’uomo può diventare “storia” se, da parte dell’uomo, non vi è, in qualche momento, un movimento verso di Lui… movimento che può essere decritto al tempo stesso come un “seguire Lui” e come un desiderio di “rimanere dove Lui rimane”, perché in quel “rimanere” si scorge la possibilità di trovare “riposo” e “pace” per il proprio cuore, secondo il celebre adagio agostiniano: «Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te» («Ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finchè non riposa in te», S. Agostino, Confessioni I,1,1).
Se, dunque, è possibile che alcuni seguano Gesù perché raggiunti dalla Sua parola, nel bel mezzo della propria ordinaria quotidianità, in molti casi perfino distratta o ostile a Lui, è ugualmente possibile che altri arrivino a seguirlo al cuore di un percorso iniziato prima ancora di rincontrarlo, magari introdotti alla conoscenza di Lui da chi, a sua volta, ne ha fatto esperienza e ne rende testimonianza.
È proprio questo il caso dei primi due discepoli che, secondo il quarto evangelo, vengono condotti a Gesù dalle parole del loro maestro, Giovanni il Battista, e che a loro volta conducono altri a Gesù… e così, l’esperienza della ricerca, della chiamata e della sequela, per quanto assolutamente personale, risulta, al tempo stesso, bisognosa di mediazioni, che siano in grado di indicare il Signore e di orientare a Lui, fonte della vita vera, quella secondo lo Spirito.
È proprio l’aver sperimentato la forza e l’efficacia della mediazione umana nel cammino di fede a spingere il discepolo ad assumere responsabilmente il proprio ministero di “mediazione”, che si traduce nell’impegno quotidiano a farsi segno, diventando appello vivente al primato di Dio e della Sua parola sulla vita di ogni uomo.
Per essere efficace, la mediazione nella fede non richiede particolari qualità da parte di chi la esercita, se non una onestà educativa che, lungi da ogni attrazione seduttiva, sappia rimandare, al di là di sé, a Colui che è la fonte e il motivo della propria gioia: ciò, tuttavia, è possibile solo per chi è pienamente dentro ciascuna delle due realtà, tra le quali si è chiamati a fare da ponte.
Il mediatore nella fede non è, in altri termini, un diplomatico capace di far entrare in dialogo il divino e l’umano, ma è uno che, avendoli assunti pienamente in sé e avendo scoperto in Dio il senso e la pienezza dell’uomo, diventa per altri segno di una possibile, per quanto faticosa, unificazione interiore.
P. Gianpiero Tavolaro