14 Luglio 2024/ Anno B
Am 7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13
L’invio in missione dei Dodici rappresenta, nell’economia dell’evangelo di Marco, una sorta di “nuovo inizio”: se, infatti, Marco aveva aperto il suo racconto parlando di un inizio dell’evangelo e identificandolo con l’apparizione di Giovanni il Battista, che preparava la venuta del Messia (cf. Mc 1,1-4), qui, al capitolo 6, è lo stesso Messia a proclamare nell’invio dei Dodici un inizio, con cui parte la corsa dell’evangelo per le strade del mondo (cf. 2Ts 3,1).
Marco scrive che Gesù «iniziò [“prese”, traduce l’edizione CEI 2008] a mandarli a due a due»: è per questo che li chiama e dona loro la sua potenza, quella che la gente gli aveva riconosciuto fin dal principio della sua azione e predicazione (cf. Mc 1,27).
Si tratta, tuttavia, di un potere accompagnato da un’estrema povertà di mezzi visibili: i Dodici, infatti, sono inviati spogli («E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche»).
I discepoli sono, dunque, invitati a non avere altro che la disponibilità a camminare (di cui sono simbolo i sandali): ma, ancor di più, questa disponibilità sembra richiedere, come condizione necessaria, la rinuncia a tutto quanto dice, invece, bisogno di sicurezza e di stabilità (pane, sacca, denaro, una seconda tunica).
Il camminare è la dimensione più propria del discepolo, dal momento che è anche una caratteristica di Gesù: egli, come scrive Christian Bobin, è l’uomo che cammina, che non si stanca di percorrere le strade del mondo alla ricerca dell’uomo, alla ricerca dell’ulteriore.
Tali sono chiamati a essere i suoi discepoli, i suoi inviati: “uomini che camminano” e che camminano amandosi.
Attraverso la sconcertante povertà di mezzi umani e mondani che Gesù esige dai suoi, Marco sembra voler dire che non è la ricchezza dei mezzi a far correre l’evangelo, ma solo l’autenticità degli evangelizzatori che, in forza della precarietà che sono disposti ad assumere, diviene luogo della potente grazia di Dio. Ma questo richiede anche altro: Gesù, infatti, non invia i discepoli come singoli, ma li invia «due a due», non soltanto per l’usanza giudaica di viaggiare in coppia per motivi di natura pratica, ma soprattutto perché portare l’evangelo è portare Gesù agli uomini, è proporre Lui, il suo volto, la sua vita che parla di Dio, che narra Dio e questo può avvenire solo nella reciprocità della carità.
Cristo può essere narrato e reso presente dagli inviati a patto che lo narrino nel loro reciproco amore fraterno, fidandosi della potenza della parola che portano e non dei mezzi con cui la portano! È questa una parola profondamente attuale per la comunità ecclesiale, sempre esposta al rischio di ricorrere al dispiegamento di mezzi e potenze mondane, con l’illusione che queste cose siano al servizio dell’evangelo e ne garantiscono l’efficacia: in realtà, tali mezzi e potenze più che al servizio dell’evangelo, possono essere a detrimento di esso, dal momento chi si fida “troppo” di essi mostra di non credere alla potenza della parola che annunzia.
E questa potenza libera dal male e dalla sofferenza, ma non costringe nessuno!
A questo proposito, Marco è attento a sottolineare che l’evangelizzatore deve mettere in conto anche la possibilità del fallimento, del rifiuto della sua predicazione, non diversamente da quanto hanno sperimentato i profeti di Israele.
Il fallimento della predicazione, tuttavia, non dice la debolezza della parola annunciata, ma la fragilità del cuore cui essa si indirizza e che può, più o meno consapevolmente, sottrarsi alla fatica di accoglierla.
Il segno della polvere scossa a testimonianza per loro assume così il valore di un gesto profetico: un gesto che significa una presa di distanza, ma che ribadisce anche la strada che gli inviati hanno percorso per quell’annunzio e che ancora sono invitati a percorrere: nessun fallimento o rifiuto deve fermare la corsa del vangelo, che, invece, vuole correre a cercare altri uomini su cui versarsi e a cui aprire nuovi orizzonti.
P. Gianpiero Tavolaro