7 Luglio 2024
Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6
Riconoscere Gesù è un “problema” la cui soluzione è tutt’altro che immediata: questo riconoscimento, infatti, esige una fatica, dovuta al fatto che la presenza di Dio è sempre una presenza mediata e l’Incarnazione di Dio, nell’umanità di Gesù di Nazareth, è stata ed è di per sé luogo “opaco”, che necessita dello sguardo penetrativo reso possibile dall’intelligenza delle Scritture (che sta nello spazio della grazia) e del salto della fede (che sta nello spazio della libertà).
La fatica del riconoscimento di Gesù richiede, dunque, l’incontro della grazia divina e della libertà dell’uomo, ma proprio a motivo di ciò i suoi esiti risultano mai scontati, come il caso degli abitanti di Nazareth mostra.
Dinanzi a Gesù e alla concretezza della sua umanità, i Nazaretani non riescono a volgere lo sguardo oltre, in profondità, restando fermi all’immagine di lui (e, quindi, di Dio) che si sono fatti: benché inizino col farsi delle domande che, a buon diritto, possono essere considerate “neutrali” («Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?»), non riescono poi a portare a pienezza il loro interrogarsi e interrogare la storia, perché “inciampano” proprio nell’ordinarietà di Gesù.
E così le loro domande diventano sempre più cariche di pregiudizi: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?».
L’ordinarietà di Gesù è troppo forte per loro: essa richiederebbe un modo nuovo di guardare a quel Dio di cui essi credono di sapere tutto, tanto da ritenerlo incompatibile con l’umanità di Gesù.
Eppure, il cuore della fede cristiana è tutto lì: nel farsi uomo del Figlio di Dio. È qui il grande scandalo che i discepoli di Cristo sono chiamati ad assumere e a testimoniare: quando si dimentica (o si mette tra parentesi) lo scandalo dell’Incarnazione, si finisce per dimenticare l’uomo e la sua storia, con tutta la fatica di essere uomini nella fedeltà alla terra, sia pure con uno sguardo rivolto verso il cielo.
L’ordinarietà della carne di Gesù è talmente essenziale alla fede in Lui che chi non la accoglie rende Dio “impotente” («E lì non poteva compiere nessun prodigio»): il rifiuto della sua umanità, infatti, rende Gesù incapace di compiere quei segni mediante i quali Dio manifesta la sua cura verso l’umano, che egli stesso non solo non ha disdegnato di assumere, ma del quale si è instancabilmente preoccupato di sanare le ferite.
A Nazareth Gesù non può compiere quei segni messianici che avrebbero raccontato Dio, perché i suoi concittadini non sono disposti a vedere la presenza di Dio nella sua umanità così ordinaria…
Eppure la via dell’opacità dell’ordinario resta ancora l’unica da percorrere, perché la presenza di Dio oggi deve essere narrata da qualcosa di ben più opaco dell’ordinaria umanità del Figlio di Dio: oggi a narrare Dio è, infatti l’umanità dei suoi discepoli…
Per quanto la comunità dei credenti si sforzi, sostenuta e guidata dalla grazia, di lavorare sulle proprie opacità (su quelle individuali, come su quelle comunitarie), bisogna sapere che esse, in ogni caso, restano e chi entra e sceglie di vivere nello spazio della fede, all’interno di una comunità ecclesiale, deve imparare ad assumere anche questa opacità, sperimentando proprio su questo terreno la misura della propria fede. Se nella Pasqua il Cristo è
stato riconoscibile attraverso le sue ferite, ancora oggi è possibile riconoscere il Cristo in quelle ferite di peccato e di contraddizioni che segnano anche il suo Corpo.
P. Gianpiero Tavolaro