9 Luglio 2023/ Anno A
Zc 9,9-10; Sal 144; Rm 8,9.11-13; Mt 11, 25-30
I versetti 25-30 del capitolo 11 del Vangelo di Matteo costituiscono, in un certo senso, il culmine del racconto matteano: se, infatti, tutta la prima parte del vangelo, fino alla confessione di Pietro al capitolo 16, vuole presentare la figura di Gesù come Messia, con questi versetti si giunge a una svolta e a una vetta.
Il contesto, paradossalmente, è quello di un grande fallimento: l’iniziale successo della predicazione di Gesù (la cosiddetta “primavera di Galilea”) è ormai scemato; le città del lago, dove pure Gesù aveva stabilito la sua dimora, lo hanno rifiutato, tanto che egli ha dovuto dire parole di un’insolita durezza contro quelle città che pure avevano visto le sue opere e non lo avevano accolto.
Ora, sulle “rovine” della sua predicazione, sulle macerie delle sue attese e speranze, Gesù non reagisce, elevando un lamento o un grido di rabbia, ma rivolge un canto di lode al Padre: il suo è il canto di chi legge la storia e ravvisa i segni della volontà, dei progetti del Padre anche attraverso (non nonostante) i crolli e le crisi. In tal modo Gesù si mostra come l’icona del vero “contemplativo”, di colui, cioè, che sa guardare la storia, ponendosi dalla parte di Dio e pervenendo a quella profonda unità di lettura (frutto della unificazione del cuore), che non distingue più un “sacro” e un “profano”, ma sa cogliere in tutto il dipanarsi dell’unica storia della salvezza voluta e orientata da lui.
In tal modo, Gesù riesce a fare da ponte tra il reale e il progetto, tra la storia, nel suo concreto dipanarsi, e il pensiero e il giudizio di Dio. Da vero contemplativo, Gesù riesce a leggere quelle rovine non semplicemente come un fallimento, ma come un luogo altamente rivelativo, in cui il Padre ha parlato.
Ed è proprio la ragione della crisi – ossia, la durezza di cuore dei sapienti e degli intelligenti – a permettere a Gesù di poter proclamare con certezza dove vadano le preferenze del Padre: verso i piccoli, che sono i non arroganti, coloro che non sanno imporsi, quelli che non contano. Per il mondo, infatti, a contare sono i sapienti e gli intelligenti, che nel contesto “religioso” di Israele sono i Dottori della Legge e i Farisei, per i quali – come recitava un detto tra essi circolante – «un ignorante non può sfuggire al peccato e un uomo dei campi non può essere di Dio».
Eppure, il Padre, di cui Gesù è il rivelatore, la pensa diversamente! Le parole di Gesù, infatti, collegano chiaramente la rivelazione del Padre all’essere piccoli e umili e, quindi, all’umiltà e alla mitezza dello stesso Gesù, perché lui solo lo conosce, così come il Padre conosce lui.
Non solo, quindi, la rivelazione del Padre è possibile solo attraverso il Figlio, ma essa richiede anche che si passi, assumendole, attraverso la sua mitezza e la sua umiltà. È questo il motivo per cui i piccoli colgono la rivelazione di Dio: i sapienti e gli intelligenti, invece, sono incapaci di riconoscere e leggere il Rivelatore nell’umile e mite Gesù. Egli stesso, «il più piccolo nel regno dei cieli» – come aveva detto poco prima rispondendo alla domanda dei discepoli del Battista (cf. Mt 11,11) –, è il luogo della rivelazione del Padre.
Per questo, lo sguardo di Gesù si posa su questi piccoli che accolgono il Regno, mentre i grandi, i sapienti e gli intelligenti, si volgono altrove e in questo modo finiscono col porre pesanti carichi sulle spalle dei piccoli: se i piccoli sono affaticati e oppressi è perché ci sono dei cattivi interpreti della Torah, dell’Alleanza, che hanno dimenticato che il Dio di Israele è il Dio dei piccoli e dei disprezzati… è il Dio degli schiavi.
A questo giogo, Gesù contrappone il suo giogo, definendolo leggero; il «mio giogo» è null’altro che la lettura compiuta della Torah che Gesù è venuto a proclamare: «Non sono venuto ad abolire [la Legge o i Profeti], ma a dare pieno compimento» (cf. Mt 5,17). L’evangelo del Regno è la buona notizia del volto del Padre, che rende a pieno capaci di compiere la sua volontà, nella piena libertà.
C’è sempre prima la grazia che libera, l’opera di Dio, e poi la Legge: osservare la Legge è lo sbocciare della grazia, e non il contrario!
Gesù definisce questo giogo “mio”, perché lui per primo lo ha portato, accogliendo il dono del Padre nella sua carne di uomo: è questo a rendere il giogo soave e leggero, il fatto che egli lo porti con i suoi discepoli.
È chiaro: si tratta pur sempre di un giogo, perché chiede sottomissione al primato di Dio; tuttavia questa sottomissione è chiesta per dare all’uomo la possibilità di sottrarsi alla philautía, allo smodato amore di sé.
Il problema è, allora, se si vuol restare prigionieri del proprio “io” o se si vuol essere liberati da questa schiavitù.
P. Gianpiero Tavolaro