23 Giugno 2024/ Anno B
Gb 38, 1.8-11; Sal 106; 2Cor 5, 14-17; Mc 4, 35-41
Il discorso in parabole viene seguito, nell’evangelo di Marco, da una sezione narrativa, che raccoglie alcuni miracoli, con lo scopo di affermare che l’evangelo viene portato agli uomini in parole e in opere: le opere confermano le parole, attestandone l’efficacia, mentre le parole rendono chiare le opere (in questo caso, i miracoli), alle quali permettono di accordare un valore salvifico (in essi Dio è all’opera, ma questo richiede l’accoglienza dell’agire divino nella fede) ed escatologico (nella misura in cui essi manifestano anticipatamente la signoria assoluta di Dio, che alla fine dei tempi ristabilirà ogni cosa nella sua integrità, vincendo il male, il dolore e la morte).
E così, anche nell’evangelo di Marco, i miracoli acquistano il valore di segni al servizio della fede più che di gesti straordinari tesi a suscitare lo stupore: la fede viene suscitata dalla parola – come ricorda anche Paolo ai cristiani di Roma (cf. Rm 10,17) – e i miracoli la rendono più forte e più chiara, benché non siano essi a produrla.
I miracoli, dunque, avendo a che fare con la fede e, quindi, con il rivelarsi di Dio al quale l’uomo è chiamato a dare una personale risposta, non solo mostrano la “potenza” di Gesù – che si manifesta nel dominio esercitato sulla natura (come ricorda la tempesta sedata), sul demonio (come emerge dall’episodio dell’indemoniato gerasèno) e in favore dell’uomo prigioniero dell’impurità e della morte (come nel caso della guarigione dell’emorroissa e della resurrezione della figlia di Giàiro) –, ma narrano anche la sua misericordia: ne risulta un volto di Dio che è “onnipotente nell’amore”… un Dio, cioè, la cui onnipotenza si manifesta nell’amore e con esso deve sempre essere coerente.
Il primo miracolo che Gesù compie, domando il mare in tempesta, ha lo scopo di condurre il lettore, anzitutto, a porsi la domanda essenziale nella relazione con Gesù: «Chi è costui?».
Il Signore si rivela così, al tempo stesso, come colui che è il solo capace di suscitare domande (essendo la domanda dei discepoli successiva al miracolo), ma anche l’unico in grado di offrire risposte… risposte che, però, bisogna cogliere, ancora una volta, nella fede.
L’evangelista, infatti, si mostra attento a spostare l’attenzione del lettore/uditore dalla potenza di Gesù sul mare alla fede dei discepoli, che diviene il centro, anzi l’obiettivo, di tutta la narrazione.
In questo senso, benché l’immagine di Gesù che dorme in mezzo alla tempesta si presenti alquanto illogica dal punto di vista narrativo, risulta molto efficace, in quanto permette di mettere in risalto la dimensione della fede nella fatica quotidiana del vivere: se, infatti, la fede del discepolo non resta salda proprio nelle difficoltà e nelle tempeste inevitabili della storia, quando il Signore pare che dorma, allora essa è una fede “immatura”, non capace, cioè, di una vera adesione a Dio, ma solo di una relazione dal carattere “religioso” (vale a dire una relazione che pretende di ricevere sempre un contraccambio).
Il dormire tranquillo di Gesù – sottolineato in Marco dall’annotazione «su un cuscino» – è potente metafora dei silenzi tragici di Dio nelle spire della storia: è lo stesso silenzio che Gesù dovrà portare alla fine del vangelo quando il Padre – che pure aveva parlato all’inizio («Tu sei il Figlio mio, l’amato»: 1,11) e al cuore del’evangelo («Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!»: 9,7) – nel Getsemani tace, pur essendo invocato con il nome della tenerezza filiale («Abba! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!»: 14,36). Ugualmente, il Padre tace sulla croce, tanto da provocare in Gesù la più terribile delle domande: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (15,34).
Contemplare Gesù che dorme sul cuscino, a poppa della barca di Pietro, diviene così una grande lezione per il discepolo, chiamato a credere a una parola che tante volte pare smentita dalla storia, lungo la quale il Signore sembra assente o addormentato, benché già il salmista assicurasse che «non si addormenterà, non prenderà sonno il custode di Israele» (Sal 121,4).
L’evangelo si rivolge, ieri, come oggi, a una comunità che è sballottata in tempeste che appaiono tanto più grandi e forti di lei: questa comunità è esortata a non dubitare della custodia del Signore, al quale non deve cessare di credere e, quindi, di affidarsi.
Credere non è mai un atto che si compie “a buon mercato”: la fede richiede il coraggio del rischio, ma è proprio questo l’atto necessario a vincere la paura.
P. Gianpiero Tavolaro