Anno A/21 Giugno 2020
Ger 20, 10-13; Sal 68; Rm 5, 12-15; Mt 10, 26-33
E’ pericoloso essere cristiani? Per l’evangelo di questa domenica pare proprio di sì. Essere di Cristo è un rischio; in verità ci sono state stagioni della storia in cui i pericoli li incontravano quelli che cristiani non erano; infatti dinanzi ad una società paludata di cristianesimo, dinanzi ad una società che aveva fatto della “bandiera” cristiana il vessillo dietro cui difendersi ed avere identità, il pericolo aveva cambiato campo! Ma erano quelli tempi in cui, come acutamente scrive André Louf, “forse la vera fede aveva cambiato campo”. Certo! Perché la situazione ordinaria del cristiano, secondo quello che dice Gesù, non è quella di una sicurezza che pone al di là dei rischi e dell’incertezza.
Una fede- assicurazione contro tutti i rischi non è la fede nell’Evangelo di Gesù. La fede è invece un rischio ed un rischio mortale … è rischio perché significa fidarsi di un altro, mettere la propria vita nelle mani di un altro e quest’altro, in aggiunta, è un crocefisso, un perdente, uno che per la storia è assolutamente uno sconfitto ed uno sconfitto in malo modo. La vera fede, in aggiunta, contiene sempre una parte seria di oscurità, di dubbio…la fede, dicevano i Padri è sempre vespertina, non è meridiana; cioè ha sì luce ma luce vespertina e non luce sfolgorante di mezzogiorno.
In un suo intervento, monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, ha detto: «San Giovanni della Croce presenta l’esperienza della “notte oscura” – inevitabile per chi crede – in maniera perfino conturbante: “Notte che mi guidasti! / oh, notte più amabile dell’aurora / oh, notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata“. La “noche oscura” è prova, eppure è anche il luogo delle nozze mistiche: Dio non si trova nella facilità del possesso di questo mondo, ma nella morte a se stessi, nella notte dei sensi e dello spirito, nella sequela del Crocifisso. La tenebra della fede è luminosa, la luce della fede è vespertina!».
Il rischio della fede, di questa fede vespertina, ci conduce alla vertigine della paura. Paura del rischio che si corre fidandosi, paura di un mondo che non prende sul serio il credente; il credente è visto dal mondo come un debole, come un perdente, nella migliore delle ipotesi come un illuso; in altri casi è visto come un integralista che fa scelte morali incomprensibili (qui poi c’è l’equivoco – da noi Chiesa ben incoraggiato – di un cristianesimo che si identifica con la morale!) … in tal senso il cristiano è rigettato dal mondo ed è escluso. Il mondo vorrebbe che venisse a patti con la sua logica; quando il cristiano non lo fa rischia e paga un prezzo. Questo è inevitabile! Se lo evitiamo, dobbiamo dircelo, è perché non prendiamo sul serio l’Evangelo di Gesù. E troppe volte, tantissime, lo evitiamo e di conseguenza l’Evangelo si mostra marginalizzato da quelli che si dicono discepoli di Cristo. È paradossale ma è così. Quanti cristiani hanno davvero l’Evangelo come criterio delle loro scelte, quale criterio davvero ultimativo? Questo accade per tiepidezza, per dimenticanza, per primati che si danno ad altro che non sia Cristo Gesù ed il suo Regno. Questo accade perché si ha paura di vivere la fede fino in fondo con tutte le sue domande più che compromettenti. Ma non si vive la fede senza un po’ di paura, in fondo fa patte della fede, purché, però, non sia una paura raggelante, che ci rende impotenti, che ci fa recedere dalle scelte radicali. La paura che si prova è testimonianza della autenticità delle scelte evangeliche. Anche Gesù fu preso da paura nell’orto di Getsemani al momento di consegnarsi per noi.
Ecco dunque l’invito di oggi a non aver paura; non aver paura di proclamare l’Evangelo ad ogni costo, non aver paura ad essere pieni di parresia in questo annunzio, un annunzio, cioè, non edulcorato, né addomesticato; un annunzio compromettente per chi lo riceve e per chi lo deve gridare dai tetti. Non aver paura degli uomini che potrebbero essere ostili all’Evangelo, o più frequentemente oggi – diciamoci la verità – indifferenti o irridenti … per combattere la paura Gesù dona una consapevolezza: si è nelle mani di Dio! È quello che Lui ha sperimentato in tutta la sua missione e fino alle ore amarissime della Passione: essere nelle mani del Padre, forse in mani che tante volte non si sentono o non si vedono, ma si è in quelle mani. L’icona dei passeri è suggestiva … neanche uno di loro cade a terra se il Padre non lo vuole e voi valete più di molti passeri … il Gesù di Giovanni direbbe che nessuno ci può rapire dalla sua mano (cfr Gv 10, 28). Nelle ore della paura bisogna rannicchiarsi nelle mani del Padre … lì si lotta contro la paura; con l’arma della fiducia. È la consapevolezza che ha il profeta Geremia nel testo che abbiamo letto compe prima lettura di questa domenica … stare nelle mani di Dio ma senza derogare dai compiti che la storia e le nostre vocazioni ci danno.
In quest’ora che tutti stiamo vivendo le paure di vario genere ci assediano ed assediano questo mondo che, fino a qualche mese fa, viveva – diciamocelo – in una rassicurante sicumera … la paura si vincerà solo assumendosi la responsabilità di quest’ora, facendo le scelte che ci impone una nuova e lucida visione del mondo e della Chiesa … La paura non ci faccia pensare che la soluzione sia tornare al passato e questo per quanto riguarda il sistema sociale ed economico e per quanto riguarda la vita ecclesiale. Grande errore sarebbe rifugiarsi nel passato con la corsa ai “ripristini”! È tempo di scelte coraggiose di novità, è tempo di mettersi assieme per inventare delle risposte a quest’ora storica. Ci sono paure? È più che normale in ore di passaggi epocali come queste ma noi discepoli di Gesù sappiamo che le paure ci stringono a Dio ma non devono agghiacciarci, le paure ci narrano la nostra fragilità e ci fanno riporre la fiducia in Dio. Non siamo degli assicurati in tutto e per tutto; la fede cristiana ha lo statuto del rischio; un rischio bello perché è quello che Gesù ha corso, un rischio che ci permette di consegnarci. È necessaria oggi una consegna carica di responsabilità; una consegna cioè che non sia delega fideistica ma impegno autentico al servizio dell’umanizzazione e dunque del Regno di Dio. Una responsabilità che noi discepoli di Gesù possiamo vivere in compagnia di quelli che non condividono la nostra fede ma condividono con noi il desiderio dell’umano e delle risposte di senso e di svolta a questo mondo malato. Per quanto riguarda noi credenti sappiamo che la consapevolezza di debolezza e fragilità ci consente di consegnarci a Dio con tutto quello che “rischiosamente” intraprendiamo con responsabilità … Se la debolezza è via di consegna a Dio, possiamo dire con San Bernardo di Clairvaux: “Optanda infirmitas!” cioè: “Desiderabile debolezza”!
P. Fabrizio Cristarella Orestano