9 Giugno 2024/ Anno B
Gn 3,9-15; Sal 129; 2 Cor 4,13-5,1; Mc 3,20-35.
Dalla montagna Gesù si sposta in una casa: dal luogo dell’avvicinarsi dell’uomo a Dio, Gesù si sposta al luogo della prossimità di Dio agli uomini, con la chiara intenzione – che risulta dagli altri passi in cui l’evangelista Marco parla della casa – di prendersi cura particolarmente dei discepoli che ha appena radunato intorno a sé.
Eppure, le folle lo cercano ancora (come in 3,7), violando quella intimità che la casa significa, al punto che «non potevano neppure mangiare». È questa la cornice narrativa entro la quale Marco inserisce, in due tempi (al v. 21 e ai vv. 31-35), una riflessione sui veri “intimi” di Gesù, su chi, cioè, può dirsi realmente dei “suoi”: anche se nei due casi, l’evangelista potrebbe riferirsi alle stesse persone (vale a dire gli appartenenti alla famiglia di Gesù e al suo parentado), tuttavia il v. 21 potrebbe includere un riferimento più generico anche a coloro che sono legati a lui in modo particolarmente stretto.
In ogni caso, i due brevi testi si riferiscono a situazioni diverse e hanno ciascuno un proprio significato. Nel primo caso, infatti, si mette in evidenza il falso giudizio che – come avverrà nel caso degli abitanti di Nazaret, al capitolo 6 – viene formulato su Gesù da parte di coloro che gli sono vicini: costoro vogliono “impadronirsi” di lui («uscirono per andare a prenderlo»), riportandolo a casa, dal momento che non comprendono le esigenze del Regno che Gesù antepone persino ai suoi bisogni (per questo essi dicono: «è fuori di sé»).
Nel secondo caso, i parenti di Gesù – tra i quali sono annoverati la madre e i fratelli – non formulano alcun giudizio e non esprimono parole di risentimento, ma lo mandano a chiamare, forse per reclamare una prossimità “di sangue”, per ricordargli un’appartenenza “naturale” della quale egli sembra essersi dimenticato.
Significativamente, questa seconda situazione è preceduta dal riferimento alla reazione degli scribi, che, come i “suoi” del v. 21, formulano un giudizio molto duro su Gesù, dichiarandolo addirittura posseduto.
A questa accusa Gesù risponde con le due brevi parabole del regno e della casa: le due immagini, che sembrano evocare l’orizzonte delle relazioni con Dio (il regno) e con gli uomini (la casa), affermano chiaramente l’impossibilità che una relazione si regga quando è in sé contraddittoria. È contraddittorio, infatti, essere alleati con colui contro il quale si combatte: e che Gesù combatta con Satana è dichiarato sin dall’esordio del Vangelo, nel breve episodio delle tentazioni (cf. 1,13) e nel primo miracolo compiuto nella sinagoga (cf. 1,21-28), dove Gesù libera un uomo da uno spirito impuro (dal quale, in 3,30, è accusato di essere posseduto).
Accusare Gesù di essere dalla parte di Satana significa non voler riconoscere la sua azione liberatrice: e questa è “bestemmia” (vale a dire attacco all’onore e alla potenza di Dio) che non può essere perdonata non per mancanza di misericordia da parte di Dio, ma per la resistenza a Dio di chi la formula, il quale si esclude volontariamente dalla salvezza.
Non basta, però, non essere un evidente avversario di Gesù per essergli davvero “intimo”: se, infatti, vi può essere chi, come gli scribi, si esclude dalla relazione con Gesù per la durezza del proprio cuore (cf. 3,5), accedere a quella relazione significa, come suggerisce il v. 35, stabilire con lui un rapporto fondato sul fare la volontà di Dio.
È solo il riferimento alla volontà di Dio che può avvicinare effettivamente l’uomo a Dio, facendo addirittura della casa degli uomini il luogo del manifestarsi del Regno: ciò non richiede che siano negati i legami naturali, ma che anch’essi, come ogni altra relazione, siano vissuti in maniera “mediata”, cioè attraverso Cristo.
P. Gianpiero Tavolaro