18 Luglio 2021/ Anno B
Ger 23 1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34
I Dodici inviati tornano…
Se domenica scorsa avevamo contemplato l’inizio della corsa dell’Evangelo per le strade del mondo, oggi contempliamo l’inizio di una vera vita comunitaria capace di mettere assieme gioie, fatiche, stupori, dolori, fallimenti, preoccupazioni, stanchezze; una vita comunitaria che ha al centro Gesù (Si riunirono attorno a Gesù) e che solo lì trova conforto, riposo, forza.
Una vita ecclesiale, apostolica, colma di attività al servizio del Regno se non trova il suo centro reale (e dunque non ideale o intenzionale!) in Gesù, diventa altro, smarrisce la forza libera dell’Evangelo, si perde nei rivoli delle contese e delle rivalità o nelle pastoie delle recriminazioni e lamenti o nelle autoesaltazioni. Se una vita ecclesiale smarrisce questo centro vitale, diviene una vita da faccendieri affaccendati (la ridondanza è voluta!), diviene una vita piena di mille e mille cose. Ma vuota di senso, di bellezza, di orizzonti ampi! Dobbiamo dire che tante vite ecclesiali sono vite brutte perché fatte di molte cose, di tanti “impegni”, di tanto “fare”, ma senza anima, senza un centro che faccia gravitare tutto nell’orizzonte del senso. Anche dopo i mesi di pandemia (speriamo che questa parola “dopo” sia vera!) purtroppo si vedono e si sentono troppi che, nella Chiesa, vorrebbero tornare alle prassi di prima, prassi caratterizzate da questo folle “fare” per tenere in piedi l’esistente; un folle fare che – diciamocelo – non ha più nulla a che vedere con il Regno di Dio!
L’Evangelo di questa domenica ci ribadisce con fermezza che una vera vita ecclesiale si crea solo attorno a Gesù! I Dodici fecero questo movimento: dall’andare al tornare attorno a Gesù! E Lui è lì per accogliere e difendere, per offrire riparo e riposo, è lì per dichiarare con dolce fermezza la necessità di un “altrove” solitario per un riposo con Lui!
È vero che dopo, nel racconto di Marco di oggi, questo non accade fino in fondo in quanto le folle ancora premono e sono spaesate ed abbandonate, ma ciò non destituisce di importanza la dichiarazione della necessità di questo tempo con Lui, del tempo del riposo, del tempo dell’”altrove”!
Le folle premono e generano in Gesù quel moto che è all’origine di tutto l’Evangelo: la commozione-compassione; questa è all’origine dell’Evangelo perché è proprio la commozione-compassione la causa dell’Incarnazione; è la commozione-compassione la causa della Croce. Unisco i due termini (commozione e compassione) per designare meglio cosa sia questo moto che avviene in Gesù: è un dolore profondo, un dolore viscerale, direi “irragionevole”; è come il dolore materno. Questo è suggerito dal verbo greco splanchnίzomai che deriva dalla parola splánchna (“viscere”) e che significa “sentire dolore nelle viscere”; è allora un dolore materno, profondo perché proveniente dalle “viscere” in cui in figlio si è formato. È questa commozione profonda il cuore dell’Evangelo, una commozione che rivela l’amore ed è ragione di ogni moto di donazione da parte di Dio. Andare in disparte con Lui per riposare è allora, per il credente, andare alla fonte di questo amore che quando si incontra con la miseria, povertà e smarrimento dell’uomo, si concretizza in commozione, in “dolore nelle viscere”. Lo stare con Lui abilita i discepoli a questo sentire con Cristo; stare con Lui significa imparare a sentire quella sua commozione-compassione, è imparare a far scaturire dall’amore la concretezza della compassione che, alla fine, si deve tradurre necessariamente in desiderio di portare gli stessi pesi, gli stessi dolori.
Infatti la commozione di Gesù si tradusse nella sua piena condivisione e della nostra umanità e della nostra morte e del nostro dolore; chi prova quella commozione profonda non può rimanere fuori dal dolore dell’amato, al contrario, lo vuole abitare e portare! Così fece Gesù e così è necessario che faccia la sua Chiesa; questo, però, sarà possibile solo se i suoi discepoli avranno sempre il “coraggio” di dare spazio al silenzio colmo di Lui, alla solitudine abitata da Lui, al riposo in Lui. Guai a chi ritiene non necessario quel salire sulla barca dell’anachòresis (cioè del prendere le distanze dal quotidiano) e del riposo in Lui; il rischio è, come sempre, quello di smarrire l’identità del discepolato di Cristo e di vestire i panni di una delle tante (e, per carità, anche benemerite!) associazioni filantropiche!
Bisogna farsi convinti che è il vero rapporto con Cristo che rende veri e profondi e scevri da ogni egoismo i nostri rapporti intra-umani.
La commozione-compassione di Gesù sorge dal vedere che quelle folle sono sole, nessuno se ne fa carico, nessuno le guida…dove vanno? che speranze hanno in cuore? hanno ancora speranze? di cosa si “nutrono”? Gesù le guarda con amore e si fa loro pastore; si fa per loro nuovo Mosè che le deve e può guidare ad una vera terra di libertà, ad una terra promessa di pace e di riconciliazione. Darà loro il pane, come Mosè diede il pane della manna, e poi, nel suo Esodo (cf. Lc 9,31) aprirà per quelle folle e “per moltitudini” (cf. Mt 26,28), una via di salvezza, una via di autentica umanità. Nuovo Davide, come ha scritto Geremia nell’oracolo che abbiamo ascoltato come Prima lettura, li pascerà nella giustizia facendo misericordia e regnando dalla Croce.
Salire sulla barca di questo Messia è sì riposare con Lui, è sì presa di distanza dal quotidiano, ma per tornare agli uomini con lo stesso amore costoso del Messia Gesù; un amore che si fa con-passione e quindi dono. Salire su quella barca è condividere con Lui le sue due “passioni” quella per il Padre, da ricercare incessantemente nel silenzio, e quella per l’uomo da servire umanizzandolo ed indicandogli vie di vita e questo portandone i pesi e le ferite, senza darsi sconti.
Le due “passioni” devono sempre stare assieme e mai, né l’una, né l’altra in modo implicito! Le vere “passioni” non tollerano l’implicito!
P. Fabrizio Cristarella Orestano