11 Luglio 2021/ Anno B
Am 7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13
Coloro che accolgono Gesù, diversamente da quelli di Nazareth, di cui la scorsa domenica cercavamo di leggere il rifiuto, divengono la Comunità di Lui, divengono la sua famiglia, divengono quella porzione di umanità che riceve in dono una bella notizia, la bella notizia, da consegnare al mondo in modo instancabile!
Chi accoglie Gesù, con tutto lo scandalo della sua umanità, direi della sua ordinarietà, accoglie nella sua vita, però, anche la possibilità del rifiuto, delle porte chiuse, di orecchi che ignorano, di parole di scherno e di insulto! La vita cristiana, e ogni azione di annunzio dell’Evangelo, non è una missione diplomatica e colma di assicurazioni e di sostegni, non è garantita alcuna immunità. Gesù chiede a coloro che annunziano il suo Evangelo due impegni: povertà e coraggio.
La povertà indicata dal precetto di andare «senza pane, né bisaccia, né denaro nella borsa, ma, calzati solo i sandali, non indossino due tuniche», significa qualcosa di molto concreto e di molto duro da accogliere, specie in questo nostro tempo in cui la Chiesa ha rischiato e rischia di cadere nell’inganno di credere che quanti più mezzi usa, quanto più è attrezzata, quanto più usa le tecniche comunicative del mondo, tanto più è efficace. Speriamo oggi che uscendo un po’ dalla convinzione di contare per il mondo, vedendo la diminutio nei numeri che, come Chiesa, dobbiamo registrare questo rischio di fidarsi dei “mezzi mondani” sia sempre più remota per la vita della comunità ecclesiale. Speriamo che non si attuino meccanismi di voluta cecità sul reale per illudersi di tornare indietro rispetto a situazioni che anche la pandemia ha reso palesi e lampanti.
Il monito di Gesù agli inviati ci dice, con parole spoglie e chiare, parole che non fanno sofismi o edulcorazioni, che bisogna andare nel mondo, tra la gente, solo con il tesoro della Parola e con la forza dello Spirito, con la sapienza nuda della croce; certo una Parola e un dono che abitano, direbbe Paolo, “in vasi di creta” (cf. 2Cor 4,7), nei vasi di creta della nostra concreta, povera, ordinaria umanità; vasi di creta che però prendono forza da una cosa straordinaria: dalla comunione! Infatti Gesù manda i suoi due a due! Questo non fa solo riferimento al fatto che nell’antico oriente per attestare una verità bisognava che ci fossero due testimoni, ma soprattutto fa riferimento al fatto che la missione di annunziare l’Evangelo ha bisogno di testimoni che si amino, che si sostengano nella fraternità e nel mutuo «portare i pesi l’uno dell’altro» (Gal 6,2). San Gregorio Magno con acuta intelligenza spirituale dirà che li invia due a due perché “non deve assolutamente assumersi il compito di predicare l’Evangelo chi non ha carità verso l’altro” (Omelia 17, 1-3; PL 76,1139). È proprio così perché due è il numero minimo dell’amore!
È questo un dato importante: nessun annunzio dell’Evangelo è efficace senza questa previa necessità. L’Evangelo ha forza e credibilità se annunziato da fratelli che si amano. La missione evangelica non solo è illuminata ma – direi – è resa possibile dalla testimonianza evangelica per eccellenza che è il mandatum novum espresso nel Quarto Evangelo: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi … da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Niente è più nocivo all’annunzio dell’Evangelo quanto il tristo spettacolo del disaccordo, della rivalità, dell’invidia, del disamore, quando non dell’odio – Dio ne liberi! – tra i credenti!
Sì, dico tra i credenti e non tra i missionari o i ministri dell’Evangelo, perché il mandato di annunziare Gesù Cristo è di tutti i battezzati. Chi non vuole assumersi questo compito abbia il coraggio di affermare di non essere più cristiano o di non esserlo mai stato, di non essere più della Chiesa!
Tutto ciò, ci dice la liturgia di questa domenica, riposa non su una nostra iniziativa ma sull’iniziativa di Dio. In principio c’è un dono che cade sul terreno della nostra libertà. Certo, per questo, possiamo rifiutare e chiudere il cuore alla voce dell’Amore ma, dobbiamo dire, che se quella voce non risuonasse noi resteremmo nel nostro piccolo mondo, nella nostra vita banale e superficiale, schiavi dei nostri desideri senza domani …
L’Autore della Lettera ai cristiani di Efeso, di cui oggi leggiamo un tratto, ravvisa infatti la sorgente di ogni vocazione cristiana, in un atto di amore di Dio; questo atto di amore precede il creato e la storia … il testo usa per ben due volte (versetti 5 e 11) il concetto di predestinazione (con il verbo proorìzo) che bisogna leggere per quello che davvero significa, non un fato o una costrizione della storia e degli uomini, ma il progetto di Dio che, nel silenzio eterno ed infinito, è un “destino” di gloria, di comunione profonda con Lui. Insomma, all’inizio della storia dell’umanità, ma pure all’inizio di ogni storia personale, c’è la ricchezza della Grazia di Dio e dei suoi sogni altissimi su di noi!
Che consolazione! Non entriamo nel mondo casualmente, né avviluppati nelle reti di un fato inesorabile, né nei meccanismi ciechi della materia. Siamo chiamati a entrare nella comunione divina fino a diventare intimi di Dio, figli del Padre e fratelli del Figlio Gesù Cristo.
Chiunque scopra tutto ciò e senta di essere in tal modo preceduto dalla Grazia si sente chiamato da quella stessa Grazia a narrare un simile Evangelo al mondo.
Non può farne a meno!
Il profeta Amos, di cui leggiamo un brano del suo libro di oracoli, aveva detto, all’inizio della sua missione profetica, parole molto forti sulla vocazione a ridire la Parola del Signore: «Ruggisce il leone, chi mai non trema? Il Signore Dio ha parlato, chi può non profetare?» (3,8). Amos è stato chiamato da una parola potente che l’ha tratto dalla sua condizione umile di pastore e incisore di sicomori (un albero da cui si traeva una specie di sughero e del lattice) e ne ha fatto un uomo della Parola! Amasìa, sacerdote di corte, vorrebbe impedirgli di pronunziare parole scomode di Dio nel santuario di Betel che il re di Israele considera suo; Amos gli replica duramente che non può fare a meno di parlare perché il parlare da profeta non è sua iniziativa ma di Dio … Quando la parola potente di Dio davvero investe, come tacerla?
Gesù, nel testo di Marco di questa domenica, dice che l’annunzio da portare è un annunzio disarmato e povero, ma potente perché portatore di una Parola colma della potenza rinnovante di Dio e della sorpresa di Dio. Se alcune porte si chiuderanno, se le parole dell’inviato saranno sbeffeggiate, se verranno innalzati muri di ostilità, il discepolo resti sereno e vada altrove! Non però in modo buonista e neutro, ma testimoniando la verità e indicando il peccato della rottura della comunione e del rifiuto di Dio. Il gesto di scuotersi la polvere dai piedi, nel mondo giudaico, significava il sorgere di una frattura, il rompersi di una comunione, di una distanza che si crea. Gli ebrei facevano questo gesto quando da una terra pagana tornavano nella Terra Promessa! Il gesto allora significa che chi non ascolta l’Evangelo si colloca fuori dall’area della salvezza, in un territorio impuro e segnato dal male! È così! Lo dice l’Evangelo! Si deve essere netti e chiari e non afflitti da quel buonismo appiattente che toglie valore a tutte le cose! L’Evangelo è cosa seria! Chi lo rigetta lo faccia assumendosene tutta la responsabilità! I discepoli devono dire questa verità, certamente senza arroganze e senza mettersi nella posizione dei “giusti”, ma con quella chiarezza che è invito alla responsabilità sui propri “no”!
Mi pare che questa parola sia tanto più forte per quelli che, da “dentro”, abbandonano la fede e la Chiesa, accecati dalle loro stolte presunzioni e dalle loro “giustizie”. Non è solo una parola per quelli che “da fuori” non accettano la visita dell’Evangelo, è parola tanto più sferzante per quelli “di dentro” che si mettono fuori giudicando i fratelli!
Chi fa questo entra davvero in una terra pagana! Dio ce ne liberi!
P. Fabrizio Cristarella Orestano